Ringrazio Dio (o chi ne fa le veci) per i giorni che ci sta mandando. Mai come in questi tempi, infatti, il potere legislativo sta mostrando il suo lato più fetido e contraddittorio: chi ha orecchie per intendere e memoria per ricordare faccia tesoro di ciò che è accaduto, sta accadendo e accadrà in questi giorni. Non è curioso che due tra gli eventi più “sconvolgenti” (o comunque di maggior clamore mediatico) offertici dalla cronaca nazionale siano entrambi dovuti alla inspiegabile latitanza del legislatore rispetto all’attuazione della carta costituzionale e - più in generale - dei principi umanitari internazionalmente riconosciuti?
Il più recente - e forse più eclatante - è sicuramente la sentenza del Tribunale di Genova sui fatti di Bolzaneto, avvenuti durante il nerissimo G8 del 2001. Su 45 imputati, 30 assoluzioni e 15 condanne, in ogni caso blandissime e soprattutto inattuabili, poiché il tutto - anche grazie all’indulto Forza Italia-Ds del 2006 - si prescriverà nel gennaio 2009. Un sentenza meramente politica, e comunque monca. Danno e beffa, come suol dirsi.
Non è dei giudici, è bene metterlo in chiaro, la responsabilità di questo sfacelo. Certamente la lettura completa della sentenza potrà evidenziare eventuali azzardi interpretativi ed eccessivamente discrezionali, ma che quelli sui fatti del G8 fossero (e siano, vedi il vicino processo sui fatti della Diaz) processi-farsa era purtroppo già scritto nel nostro codice penale: un codice del 1930, che in 60 anni e più di repubblica e democrazia non è riuscito a vedersi integrato del reato di tortura. Il paese che ama la vita e che vede in Cristo uno dei massimi riferimenti ideologico-culturali non conosce il reato di tortura. I poliziotti che hanno trasformato Genova in una macelleria erano (e sono imputati) per reati quasi bagatellari: abuso d’ufficio, violenza privata, falso ideologico, ingiurie, percosse. La Convenzione dell’ONU contro la tortura, ratificata nell’88 e mai recepita con modifiche legislative sul piano interno, in Italia è carta straccia. Di qui le condanne blande per i delittucoli di cui sopra, di qui la rilevanza dell’indulto (che interessa i reati con pene non superiore a tre anni), di qui la prescrizione lampo.
Ovviamente impossibile, del resto, un’interpretazione “larga” dei dettami costituzionali e delle Carte internazionali, poiché nel diritto penale sono sacri il divieto di analogia per le norme incriminatrici e il principio della determinatezza e tassatività della norma penale. Leggasi: se la legge non lo prevede, il reato non esiste.
Dove, per fortuna, i giudici possono liberamente porre rimedio alle falle lasciate aperte dal legislatore è il settore civile. La recente sentenza della Corte d’Appello di Milano come giudice di rinvio sul caso Englaro ne è la prova. Ed è contro questa sentenza (ma anche contro la famiglia di Beppino Englaro, contro la Costituzione, contro di me, contro tutto il popolo italiano) che il legislatore ha dato il peggio di sé.
Su proposta del senatore Kossiga (uno che di stato vegetativo se ne intende), e con l’avallo del presidente del senato Schifani, è stato dato impulso alla procedura di ricorso alla Corte Costituzionale per “conflitto di attribuzione” tra potere legislativo e potere giudiziario, poiché, a detta dei futuri ricorrenti, la decisione sul caso Englaro è stata presa “dai giudici invece che dalla legge”.
Il pulpito, tanto per capirci, è lo stesso da cui dovrebbe vedere la luce - come è accaduto o sta accandendo in tutta Europa - una legge sul testamento biologico, o che specifichi perlomeno i principi in materia già contenuti nella Costituzione declinandoli al caso particolare dei malati terminali o incurabili. Dato che su un tema del genere la papalina Italia non ha mai pensato di sporcarsi le mani, i giudici - cui per legge non è permesso il non liquet sulle questioni loro sottoposte - si arrangiano come possono, e i mezzi per farlo, oltre ad essere numerosi, sono dotati (ironicamente) di un’autorevolezza giuridica e politica anche superiore alla legge ordinaria. Per citarne qualcuno: Costituzione (art. 2: lo Stato protegge la vita e lo sviluppo della personalità, e prevedere degli “obblighi sociali di solidarietà” non può mai trasformare la vita dell’individuo in un dovere pubblico, così come configurata nel periodo autoritario; art. 13: la libertà individuale è inviolabile, e suo corollario è il principio di autdeterminazione, valido ovviamente anche in materia sanitaria, poichè il proprio corpo è il primo nucleo di inviolabilità; art. 32: la salute è un diritto, non un dovere: nessuno può essere obbligato a ricevere qualsivoglia trattamento sanitario - a prescindere quindi dall’”accanimento” - salvo casi eccezionali comunque stabiliti dalla legge), Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, ratificata - anche se non eseguita - dal nostro paese (artt. 5, 6 e 9, rispettivamente sul consenso informato, sul ruolo del rappresentante legale - ed es. il tutore, come Beppino Englaro - e su quello della volontà pregressa del paziente nei casi di incapacità di intendere e di volere), principi generali desumibili da altre leggi ordinarie sempre in materia di trattamenti sanitari e di correlate situazioni di incapacità di intendere e di volere (l. 211/2003, o la stessa legge 194 del ‘78) , Codice di Deontologia medica (da leggere tutto, anche solo per avere un’idea di quali siano davvero i principi che animano la medicina internazionale).
Che poi Schifani se ne venga con la storiella del “conflitto di attribuzioni” fa più ridere che altro. La sentenza di Milano, così come quella della Cassazione dell’ottobre 2007, non riposano sulla volontà arbitraria dei giudici, bensì sulla Costituzione, o addirittura su carte internazionali ratificate ma non rese esecutive sul piano interno, come pure la Costituzione vorrebbe (art. 11). Non c’è nessun conflitto di attribuzioni: è il legislatore che latita, e che ha pure il coraggio di gridare al sacrilegio se i giudici fanno il proprio lavoro di “diritto vivente”.
mentecritica.it
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